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Il figliol di Sbiloncolo di Valle 
(popolare, area lucchese)

Il figliol di Sbiloncolo di Valle
s’innamorò della bella Giannina:
grosso ci aveva il petto e anche le spalle,
l’era ’n’appetitosa contadina;
ma l’aveva un mappamondo
ma sì bello grosso e tondo
e chioma nera,
pareva proprio un fio’ di primavera.

E il giorno giunse dello sposalizio,
Giannina risplendeva come stella,
e se la rimirava il su’ Maurizio,
dicendo «Alfin ti sposo… cara bella!
Quando a letto si po’ andare,
quanti baci ti vo’ dare…
e in allegria, allora ti dirò: sei tutta mia»

’Pena fenito i bocconcini boni,
dissero tutti «Noi si vòl ballare…»
Gli arriva il mandolino e l’altri sòni,
ed il trescone prencipiano a fare
allo sposo Maurizio
gli pareva un sagrifizio
e stava ’n posa a consolare la su’ cara sposa.

E la vegliata a ballo fu fenita
e a casa sua ne vanno l’invitati
Maurizio cominciava a gongolare,
ma la Giannina ’un si volea spogliare.
La diceva: «Mi vergogno!
Su via levati di torno…»
Adagio adagio, la strinse al petto
e glielo diede un bacio.

Senza parole la fece spogliare:
e prima il manto e dopo la gonnella,
quando in camicia lei venne a restare,
gridò «Oddio che brutta raganella!
Dov’è i fianchi? Dov’è il petto?
Tutto quanto sott’a i’ letto…
Che confusione! Tu se’ più secca te che ’un è un bastone!»

Eppure tutta quanta finta ll’era,
ci avea di finto ’nsino la dentiera
prese i capelli e cominciò a tirare,
Maurizio ’un si dà pace quella sera
invelenito tira quelli
che gli aveva neri e belli:
«Oddio che zucca!»
E gli rimase in mano la parrucca…

Maurizio ni’ vede’ quella grandezza,
prese un bastone e prencipiò a menare,
e quando gli ebbe già tanto menato,
scese le scale con tutta sveltezza:
prese il treno andò a Livorno,
dalla bella ’un c’è più torno
E la Giannina?
Rinchiusa in un convento, cappuccina.
Tutto dolente:
«Ma l’òmo piglia moglie e se ne pente»

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